
Atmananda, danzatrice e monaca induista
Danzare è un atto sacro che la mette in connessione col divino e allo stesso tempo trasmette a chi la guarda principi alla base dell’induismo. Ad affidare la storia della sua vita ad AVANGUARDIE MIGRANTI è Svamini Atmananda Giri. Un racconto sereno e luminoso che ci immerge nell’atmosfera del Dipavali, la Festa della Luce, celebrata a Roma il 3 e 4 novembre.
“La Festa della Luce ci fa vedere il quotidiano in un’altra prospettiva. E’ un invito a superare gli egoismi, ad andare oltre se stessi per dare all’Altro. Il dono di sé dà tanto alla comunità. Se ognuno di noi facesse una piccola parte, il mondo sarebbe diverso”: questo il messaggio che Atmananda vuole condividere per questa celebrazione importante, il Natale degli induisti.
“Quello che guarisce le ferite degli esseri umani è la maturità, la serietà, l’andare oltre se stessi. Per curare l’altro, però, devi prima curare te stessi, vuol dire conoscerti, per un donare consapevole. Ma non siamo tutti predisposti a dare” ci confida la monaca induista dal tempio di Altare, nel savonese.
Svamini – che indica il suo titolo di monaca – Atmananda – che racchiude il proposito della sua vita, la beatitudine – e Giri – per la sua appartenenza alla tradizione monastica dell’ordine dei Giri, che significa montagna. Le tre componenti del suo nome rivelano molto dell’identità e del percorso di vita della 37enne, nata e cresciuta in provincia di Savona, da genitori italiani induisti. Già da piccola il suo quotidiano era improntato alla spiritualità induista vissuta nel quotidiano, a cominciare dallo yoga e la danza classica indiana, scoperta in tenera età.
“L’arte, la cultura, la spiritualità indiana facevano parte del mio quotidiano sin dalla nascita quindi mi risultavano molto familiari, vicine al mio modo di comunicare, molto gestuale. La scoperta della danza Bharata Natyam è stata una rivelazione e da subito si è accesa in me la passione per questa forma d’arte in cui le mani raccontano, si parla con i gesti. Per me una modalità molto istintiva e naturale, in linea con il mio sentire” racconta Atmananda.
Lasciata libera dai genitori delle sue scelte religiose, ha conosciuto il cristianesimo, si è interessata ad altri credi ma poi ha scelto l’induismo, approfondendone sempre più la conoscenza. “E’ stata un’attitudine spontanea. Nell’induismo ho progressivamente trovato le risposte che mi servivano per la mia vita spirituale. Non è solo religione ma una filosofia di vita che ha permeato tutti gli aspetti della vita dell’uomo, gli dà una disciplina basata su principi e tradizioni, che si tratti di cultura come di scienza. Motivo per cui è difficile scindere il sacro dal profano. In quello che fai, potenzialmente tutto è sacro” prosegue la monaca induista.

Per lei, sin dai 4 anni di età, la danza classica indiana ha rappresentato un supporto educativo. mentre lo yoga le ha dato la piena consapevolezza del proprio corpo, aiutandola quindi nell’apprendimento della danza, contribuendo a renderla viva a 360 gradi. La danza praticata dalla bambina prodigio, ora donna, è molto complessa: richiede un buon equilibrio, una grande concentrazione, un coordinamento perfetto tra mani, viso, occhi e movenze del busto mentre a dare il ritmo sono i piedi.
“Ho iniziato a danzare con maestri che venivano dall’India ad insegnare in tutta Italia, sotto forma di seminari. Poi quando ero più grande, durante le vacanze scolastiche, con i miei andavamo in India dove ho perfezionato l’apprendimento con insegnanti di importanti accademie che mi davano lezioni private” si ricorda l’interlocutrice di AVANGUARDIE MIGRANTI. “A coronamento del mio lungo percorso sono stata consacrata danzatrice in un tempio in India, nel corso di un rituale che lo ufficializza – l’Arangetram – durante il quale l’insegnante ti consegna le cavigliere, il simbolo della danzatrice, grazie alle quali senti meglio i ritmi, i movimenti dei piedi, dandomi il via libra ufficiale ad eseguire spettacoli” dice ancora emozionata Atmananda, aggiungendo che “non si finisce mai di studiare, è un percorso di crescita legato all’evoluzione interiore, pertanto continuo a farlo in monastero”.

Lo yoga come la danza sono attività umane, quindi permeate dal divino. “Ma non tutti i monaci danzano – sottolinea – ed io quando danzo sono un’altra. Rispetto tutti i cannoni dalla danza, dal vestiario al trucco” continua Atmananda, precisando che “quando danzo ‘educo’ gli spettatori, un po’ come se fossero miei studenti, trasmetto loro conoscenze, principi ed etica”. La danza rappresenta per lei un’offerta di se al divino, con il quale entra in dialogo, muovendo le sue mani come se pregasse. E dal momento in cui la danzatrice esegue le sue mosse offrendole a Dio, la danza diventa sacra.
Altrettanto naturale e precoce è stato il suo passaggio alla vita monacale. “A 14-15 anni sapevo già cosa mi rendeva felice, cosa volevo per la mia vita. Certamente non trovavo alcuna soddisfazione nelle esperienze fatte dai miei coetanei, come andare in discoteca il sabato sera. Non mi gratificavano. Invece mi sentivo a mio agio quando meditavo nel monastero. Non si tratta di una vita di clausura ma di una vita al servizio degli altri, di Dio, ed è quello che mi dava, mi dà gioia” racconta con serenità Svamini Atmananda Giri. Così all’età di 15 anni ha chiesto di diventare monaca e dopo un noviziato durato 11 anni, a 26 anni nel corso di un viaggio in India, nel luglio 2008, ha preso i voti.

Da allora la sua ‘casa’ è il Monastero induista tradizionale Svami Gitananda Ashram ad Altare (SV), l’unico in Italia, punto di riferimento per gli induisti d’Europa, uno dei più importanti fuori dall’India, anche al livello architettonico. E’ stato costruito negli anni 90’ seguendo i cannoni dell’edilizia sacra, basati sui 5 Shakra, ricco di sculture e decorazioni realizzate da artigiani indiani venuti in loco. E’ un culto molto raro dedicato alla divina Madre, Shri Lalita Mahatripurasundari.
Il tempio di Altare è frequentato dalle varie comunità induiste dello Sri Lanka e dell’India che vivono in Italia, dove ricevono benedizioni e partecipano a rituali e festività. E’ un ambiente ricco di stimoli culturali e spirituali, dove Atmananda si dedica alla pratica e allo studio della danza, dello yoga, del sanscrito e della filosofia indiana, oltre ad aver frequentato l’Università di Torino, seguendo un curriculum orientalistico.
“Viviamo in 20 nel tempio tra monachi e novizi, sia italiani che indiani. Siamo chiamati a svolgere varie attività all’interno come all’esterno, seguendo un’agenda ben precisa nella quale ognuno di noi ha le sue mansioni. Oltre alla preghiera collettiva al tempio abbiamo momenti di formazione sia in gruppo che individuali, alcuni separati tra uomini e donne. E poi gestiamo una casa editrice, ci occupiamo dell’orto e degli animali, della manutenzione del tempio aggredito da condizioni meteo difficili in montagna e svolgiamo attività culturali fuori” aggiunge la monaca.

Ci dice anche che una volta che diventi monaco non fa più alcuna differenza se sei uomo o donna, la cosa importante è l’essere individuale, con la sua intelligenza, la sua maturità e personalità. Tutti indistintamente celebrano i riti, ma una volta che prendi i voti non puoi farti una famiglia nel senso classico e automaticamente la tua famiglia allargata è quella della comunità.
Sul rapporto degli italiani con l’induismo, Svamini Atmananda Giri ci risponde che “c’è sempre chi ti guarda un po’ come un extraterrestre, ma rispetto a qualche decennio fa sono sempre di meno. In passato chi non era cattolico era visto con diffidenza. Ora invece gli italiani sono più predisposti a conoscere, a relazionarsi con altre realtà, in cerca di risposte per esprimere la propria spiritualità”.
Da monaca riconosce che non è facile far capire una cultura percepita come lontana, ‘spiegare’ lo spirito induista a prescindere dalle tradizioni. “Spesso arrivano messaggi non corretti, anche perché è molto difficile tradurre alcuni principi dell’induismo in italiano. E’ anche una questione di linguaggio: per rendere il significato di una parola in sanscrito a volte serve un’intera frase in italiano” spiega Svamini Atmananda Giri. “Eppure l’induismo è più vicino a quello che uno possa pensare. La lontananza è solo geografica e culturale. Ti trasmette dei principi universali, quelli maturati dall’uomo con una certa consapevolezza, principi che legano l’uomo a Dio e agli altri uomini” conclude la monaca induista.
Finora all’anagrafe il suo nome e cognome sono ancora quelli dati dai genitori alla nascita e per cambiarli dovrebbe risolvere una serie di cavilli burocratici tutti italiani. Ma questa è un’altra storia…
Photo Credit: © Svamini Atmananda Giri – Svami Gitananda Ashram