
“Khota”, racconti di donne dal Bangladesh
AVANGUARDIE MIGRANTI incontra Katiuscia Carnà e Sara Rossetti, autrici del libro “Kotha. Le donne bangladesi nella Roma che cambia” (Ediesse, 2018), un focus sulle donne originarie del Bangladesh, colonna portante di una delle comunità straniere più numerose d’Italia.
Kotha è un libro al femminile. Come la vostra di storia, il vostro percorso di studi e lavoro vi hanno portato ad intraprendere un viaggio alla scoperta della donne bangladesi in Italia?
Katiuscia Carnà – Io provengo da un percorso di studi un pochino particolare. Dal 2011 lavoro come mediatrice interculturale e religiosa, parlo hindi e urdu e un pochino di bangla, e questo sicuramente ha facilitato un po’ il mio accesso alla comunità bangladese. Inoltre come Sara anch’io ho insegnato italiano a classi di sole donne, dove la maggioranza proveniva dal Bangladesh. E poi mio marito è indiano di Kolkata del Bengala Occidentale indiano. L’idea del libro è nata proprio dal desiderio di dare voce alle donne bangladesi che vivono nella nostra città, permettere loro di raccontarsi, e noi credo che avevamo la fortuna di avere un accesso facilitato come donne, mogli e madri.
Sara Rossetti – Mi sono sempre occupata di migrazioni, dal punto di vista storico e linguistico, sia facendo ricerca in campo glottodidattico che insegnando italiano lingua seconda in particolare in classi di sole donne (negli ultimi anni, nello specifico, bangladesi). Conoscere le donne così da vicino mi/ci ha fatto pensare al bisogno che c’era di raccontarle. Last but not least, sono sposata con un uomo del Bangladesh e questo ha sia reso più forte l’urgenza di raccontare una cultura che ormai fa parte di me e, inoltre, ha facilitato il percorso.
Kotha è un libro allo stesso tempo scientifico e divulgativo. E’ costruito su numeri, studi e ricerche universitarie e nel contempo propone storie di vite con una quarantina di interviste. Come avete portato avanti la sua realizzazione?
Ci siamo conosciute in un corso di italiano per donne, in una sala di preghiera islamica, dove entrambe insegnavamo. Da lì sono nate la nostra amicizia e l’idea di questo libro.Il resto è venuto abbastanza naturalmente, conciliando i nostri studi e le nostre esperienze familiari. Non sempre è stato facile, ma il desiderio di portare a termine il nostro libro ci ha spinto a non mollare! Il nostro lavoro consta di un’ampia ricerca bibliografia a livello nazionale e internazionale, oltre ad un lavoro sul campo di almeno 2 anni durante i quali abbiamo intervistato quaranta donne di diverso status sociale e di età differente. Questo per garantire che il nostro campione fosse il più variegato possibile, per offrire uno spaccato reale della collettività bangladese a Roma.
Un viaggio che vi ha fatto entrare nella vita quotidiana di diversi quartieri in cui la presenza della comunità femminile del Bangladesh è significativa. Ci potete dare qualche immagine significativa di una Roma che voi stesse definite in cambiamento?
KC – Nel 2015 pubblicai un testo “Roma guida alla riscoperta del Sacro” (della Edup), una guida che offriva una vera e propria mappatura di una Roma nuova, multietnica e multireligiosa. Dal 2015 ad oggi le cose sono sempre più in evoluzione, basti pensare ai luoghi di culto islamici, almeno 60 sul territorio romano, alla più grande Moschea d’Europa al Monte Antenne, alla più grande Pagoda cinese in Via dell’Omo. Culture e tradizioni differenti che si incontrano e convivono negli stessi spazi urbanistici. Una Roma diversa che cambia anche semplicemente osservando i quartieri etnici di Roma, quali l’Esquilino e Torpignattara.
Ci potete dare anche qualche numero significativo su questa presenza e sulle motivazioni al trasferimento in Italia?
KC – I bangladesi a Roma e nel Lazio sono poco più di 35mila (Idos, 2017) e pensate, solo nel quartiere di Torpignattara, denominato “Bangla town”, si contano 5800 presenze. Roma viene pertanto definita la IV capitale del Bangladesh, dopo Dhaka, Kolkata e Londra ovviamente. I motivi a monte sono molteplici. La povertà è un fattore determinante, in quanto ancora oggi in Bangladesh vivono ancora sotto la soglia di povertà. Poi le catastrofi naturali, alluvioni, uragani, non garantiscono una vita serena e senza pericoli. Una minoranza inoltre fugge dal paese per motivazioni prettamente politiche, persecuzioni. Infine ma non per ordine di importanza, coloro che vengono spinti dall’immaginario sociale di altri connazionali già arrivati in Europa. Il desiderio di una vita migliore per sè e per la propria famiglia.
Senza troppo cadere in stereotipi e semplificazioni, si può fare un identikit della donna bangladese trapiantata in Italia?
SR – Il nostro obiettivo è proprio quello di non cadere in semplificazioni, stereotipi e generalizzazioni. Infatti diciamo sempre che il nostro libro è una raccolta di racconti, di vissuti diversissimi tra loro. Però è chiaro che è difficile definire un unico racconto, una storia unica, un unico profilo. La maggior parte delle donne bangladesi sono giunte in Italia in seguito al marito, per ricongiungimento familiare, per la maggior parte casalinghe e madri, ma abbiamo conosciuto anche imprenditrici, artiste, mediatrici culturali, commercianti.
In queste donne nate in Bangladesh e trasferite qui, quanto il paese natio è presente al quotidiano e quanto sentono Roma come la loro città?
SR – Moltissime donne qui si trovano benissimo e non andrebbero mai via, altre si trovano meno bene e/o non conoscono abbastanza la città per prendere l’una o l’altra posizione. Quelle che sicuramente si sentono romane sono invece le figlie, le nuove italiane. Molte sono nate qui o ci sono arrivate da piccolissime e non hanno alcun dubbio nel dichiararsi orgogliosamente romane.
Donne del Bangladesh, Islam e velo. Cosa ci potete dire in merito?
KC – La questione del velo è sempre una questione articolata, in quanto nelle interviste le ragioni che portarono queste donne a velarsi erano e sono le più diversificate. Il nostro immaginario sociale ci spinge a considerare il velo, una semplice sottomissione ai voleri del marito, in realtà non per tutte è così, anzi! Molte donne decidono di indossarlo una volta arrivate in Italia o una volta sposate. Sono davvero eterogenee le loro storie. Il molti casi si tratta di un rafforzamento dei simboli identitari in una paese che non si conosce, del quale spesso si ha timore, una necessità di sentirsi al riparo da occhi indiscreti.
E’ una comunità che convive serenamente con le altre, riesce ad integrarsi? Subisce molti episodi di razzismo?
SR – La comunità è nota per essere pacifica, tranquilla e lavoratrice, ma ovviamente anche questa ci sembra una generalizzazione. Tuttavia non possiamo parlare di una collettività che crei disordini, mentre sicuramente sono e sono stati vittime di episodi di razzismo. In molti casi proprio per la fama di persone pacifiche. Sono tristemente noti i bangla tour, una sorta di riti di iniziazione dell’estrema destra nei quali giovani militanti aggrediscono cittadini bangladesi.
Le nuove generazioni si sentono più bangladesi o italiane? Riescono ad avere un ruolo di ponte tra passato e futuro, tra i due paesi?
SR – Anche in questi casi è difficile fare un discorso unico, ma sicuramente la maggior parte delle intervistate si sentono romane e italiane. Molte di loro ci tengono moltissimo anche alle origini, parlano la lingua madre, seguono la religione della famiglia e riescono perfettamente a conciliarvi il loro sentirsi italiane. Emblematico è il caso delle mediatrici culturali o delle insegnanti di danze bangladesi che utilizzano elementi della tradizione d’origine (lingua e arte in questo caso) come capitali utili alla loro professionalità.
Note biografiche:
Katiuscia Carnà è nata a Roma il 17/10/1987. Laureata e specializzata in Lingue e Civiltà Orientali presso la Sapienza di Roma. Nel 2008 vince una borsa di studio per la Jadavpur University in Kolkata (India), dove approfondisce la sociologia e la filosofia femminista. Ha un master di II livello in Sociologia, metodologia e ricerca presso l’Università di Roma Tre e un master di I livello in religioni e mediazione culturale presso la Sapienza. Attualmente sta concludendo un dottorato in scienze della formazione presso l’Università di Roma Tre. Dal 2011 lavora come mediatrice culturale e religiosa nelle scuole, ospedali e istituzioni. Dal 2013 lavora nella formazione interculturale. Vive a Roma, cresciuta a Garbatella e da pochi anni nel quartiere Magliana. E’ sposata con Amin di Kolkata e hanno due bimbi di 6 e 7 anni.
Sara Rossetti è nata a Roma il 28 febbraio 1984. È dottoressa di ricerca in Storia politica e sociale dell’Europa moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Nella tesi di dottorato ha condotto una ricerca sulle donne italiane emigrate in Francia tra le due guerre mondiali ricevendo menzione di merito nel premio Franca Pieroni Bortolotti. Ha conseguito un Master di II livello in Progettazione avanzata dell’insegnamento della lingua e cultura italiana a stranieri presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, occupandosi di didattica rivolta alle donne migranti. Dal 2009 lavora come insegnante di italiano a stranieri e dal 2014 come insegnante nei Corsi di formazione professionale in zone periferiche e con studenti a rischio dispersione scolastica. È sposata con Masum, bangladese, e nel 2017 sono diventati genitori di Samir.
Photo Credit © in copertina Cristina Mantis – “Il segreto di Hamida”; Katiuscia Carnà e Sara Rossetti.