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Alla Biennale altri sguardi su migrazioni

In occasione della 58esima Biennale d’Arte di Venezia, porte aperte a 13 artisti, affermati e emergenti, rifugiati e non, che con le loro opere racconteranno in prima persona le condizioni di chi è costretto alla fuga dalla terra di origine, offrendo un altro sguardo su un tema di scottante attualità.

La mostra d’arte contemporanea intitolata ‘Rothko in Lampedusa’, visitabile fino al 24 novembre al Palazzo Querini è un progetto espositivo indipendente dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). L’intento principale è quello di proporre una narrazione alternativa rispetto a quella prevalente, in cui i rifugiati siano considerati non come una massa indefinita, un agglomerato di persone spersonalizzato, ma esseri umani e individui unici. Inoltre in presenza delle condizioni giuste per esprimersi, il loro talento può non solo fiorire, ma essere anche di grande beneficio alle comunità ospitanti.

Le opere in mostra firmate da 8 artisti affermati sulla scena internazionale e da altri 5 emergenti sono testimonianze dirette di umanità e di talento, a cominciare da quella di Rothko, di cui beneficiamo tutti e senza la quale oggi saremmo più poveri.

Il titolo della mostra – curata da Luca Berta e Francesca Giubilei – allude al legame ideale tra uno degli artisti più celebri del XX secolo e i rifugiati che arrivano oggi sulle coste meridionali dell’Europa, tra cui l’isola di Lampedusa, in cerca di sicurezza e protezione. Dare spazio a queste voci significa lasciare aperte le porte perché l’arte possa aiutarci a comprendere i fenomeni che l’umanità si trova ad affrontare.

E lo farà in modo imprevedibile, come era imprevedibile che quel ragazzino, arrivato a Portland nel 1913 con la sua famiglia in fuga dall’attuale Lettonia, sarebbe diventato un giorno il grande artista che conosciamo, Mark Rothko, che è stato scelto come esempio paradigmatico di una condizione esistenziale, toccata a moltissimi artisti del XX secolo, in fuga dalle persecuzioni razziali, religiose e politiche, e tutt’oggi tristemente attuale.

Ad accomunare gli otto artisti affermati quali Rothko, Ai Weiwei, Adel Abdessemed, Christian Boltanski, Richard Mosse, Abu Bakarr Mansaray, Nalini Malani, Dinh Q. Lê, Artur Żmijewski, e i cinque emergenti – Mohamed Keita, Bnar Sardar Sidiq, Hassan Yare, Majid Adin, Rasha Deeb – il fatto di aver vissuto personalmente la condizione di rifugiato o di aver fatto di questo tema un elemento cardine della loro carriera. Pur non conoscendosi e avendo fatto esperienze di vita anche molto diverse, con le loro opere condurranno il visitatore attraverso un percorso inedito che permetterà di guardare con occhi diversi l’esistenza di chi è costretto alla fuga dalla terra di origine. Uno sguardo non solo dall’esterno ma anche dall’interno, poiché per una volta integrerà anche il punto di vista di chi – i cinque artisti emergenti – la condizione di rifugiato viene attualmente vissuta in prima persona e che ha avuto finora opportunità limitate per coltivare il proprio talento e far sentire la propria voce.

Ai Weiwei si appropria del lavoro di Rothko e lo riproduce usando blocchetti di Lego donati da migliaia di volontari. In questo modo, l’artista contemporaneo per antonomasia trasforma l’opera unica ed eccezionale del maestro in un lavoro globale, dove l’importanza dell’autorialità scompare a favore dell’universalità del messaggio. Le immagini dei barconi sovraccarichi di uomini, donne e bambini disperati e in balia delle onde fanno ormai parte del nostro bagaglio visivo. Il naufragio e la fuga sono infatti da sempre un soggetto artistico, pittorico molto frequentato dagli artisti, tra i quali Tintoretto, Gericault, Turner, Goya e molti altri.

Anche Adel Abdessemed, artista francese di origine algerina che ha lasciato il suo paese nel 1994 alla ricerca di pace e stabilità politica, propone questo soggetto, presentando per ‘Rothko in Lampedusa’ una serie di 12 grandi disegni in carboncino su carta. Disegni essenziali, quasi schizzi preparatori, in cui i tratti dell’individuo si disperdono nella rappresentazione di una moltitudine indefinita.

Il francese Christian Boltanski, di padre ebreo di origine ucraina, ricorre nella sua installazione a due topoi delle fughe di migranti in mare e dei loro salvataggi – l’oro delle coperte termiche e il movimento perpetuo delle onde – per aiutarci a immaginare il naufragio e la sensazione di terrore che si deve provare ad essere dispersi in mezzo al mare.

Meno evocativo e più scientificamente descrittivo il lavoro fotografico di Richard Mosse, che registra a distanza l’attività e le tracce dell’umanità costretta a vivere nei campi profughi. L’uso di avanzatissime tecnologie militari ha consentito all’artista irlandese di sviluppare una serie di lavori caratterizzati dal contrasto tra oscurità e luce. Sono paesaggi umanissimi ma astratti in modo straniante: gli oggetti, gli edifici e i corpi, laddove compaiono, diventano essenziali presenze luminose, indefinite e prive di qualsiasi connotazione razziale, culturale o di genere.

La guerra ha lasciato le sue tracce anche nei fantasiosi disegni di Abu Bakarr Mansaray, che ha vissuto la violenza dei massacri in Sierra Leone da cui è dovuto fuggire, ma dove ora è tornato a vivere. I suoi lavori sono delicati disegni di complessi congegni meccanici usati dagli uomini per uccidere: assemblage di residui bellici che con amara ironia l’artista ricompone per formare macchinari di fantasia, ma pur sempre letali come a dichiarare che non c’è scampo dalla guerra e dalla violenza, che si perpetuano nonostante lo scorrere della storia.

La Storia con la ‘s’ maiuscola è alla base dell’opera di Nalini Malani, artista che ha vissuto in prima persona le tragiche conseguenze della partizione dell’India e che ha usato la narrazione nazionalista, l’iconografia ereditata e gli stereotipi culturali, specie quelli legati al ruolo marginale della donna, per sviluppare un linguaggio dirompente e contemporaneo, fatto di immagini in movimento e di suoni, che pone al centro di tutto la figura femminile.

Gli stereotipi che governano molti dei giudizi e delle opinioni che ognuno di noi si costruisce sul tema dei migranti vengono affrontati da due punti di vista molto diversi dagli artisti Dinh Q. Lê e Artur Żmijewski. Il primo è un artista vietnamita che nell’opera video ‘The Imaginary Country’ racconta l’esperienza del ritorno a casa dei suoi connazionali, avendo coltivato per anni un mito patriottico che verrà probabilmente disatteso dalla realtà. Invece Żmijewski, artista polacco, usa il suo lavoro fotografico e video come documento politico per ricordarci il ruolo provocatorio che deve sempre mantenere l’arte. Ritrae i migranti nelle nostre città con un linguaggio crudo e tagliente, ricordandoci la nostra posizione di vantaggio sociale ed economico e quindi il nostro potere sugli altri, e come questo spesso si trasformi in abuso.

Questi otto artisti contemporanei affermati sono stati invitati dai curatori a dialogare con i cinque artisti emergenti, le cui storie e provenienze hanno indubbiamente influenzato e plasmato le loro scelte artistiche.

Le fotografie di Mohamed Keita – scappato dalla Costa d’Avorio a soli 13 anni e rifugiato in Italia dopo un viaggio durato quattro anni – ritraggono altri migranti come lui, ma soprattutto noi occidentali, osservati attraverso l’occhio di un giovane ivoriano, con un punto di vista fotografico spesso eccentrico, in quanto molte delle foto sono riprese dal basso, dal piano della strada, come di qualcuno che fosse seduto a terra.

Sempre la fotografia, o meglio il ritratto singolo e di gruppo, è il linguaggio scelto dall’artista curdo-irachena Bnar Sardar Sidiq, rifugiata in Inghilterra, che con estrema discrezione e delicatezza racconta la vita di una piccola comunità eterogenea di profughi: due famiglie, una cristiana e l’altra sunnita, fuggite entrambe alla violenza di una guerra sconsiderata, che vivono assieme sotto lo stesso tetto.

 Le strisce narrative a fumetti di Hassan Yare, che vive da 10 anni in un campo di rifugiati in Kenya dopo aver perso tutti i suoi familiari e amici in Somalia, ci parlano di un quotidiano di paradossale normalità ed eterno presente, tutto articolato all’interno del campo che per migliaia di individui determina una perenne e immutabile condizione giuridica e di vita, una nuova categoria umana o subumana, quella del rifugiato.

La video animazione è ciò che ha fatto conoscere anche al mondo occidentale Majid Adin, proveniente dall’Iran e rifugiato in Inghilterra. La sua capacità di combinare musica e immagini in brevi e coinvolgenti narrazioni gli ha consentito di avvicinare anche il pubblico più giovane a tematiche complesse, come quella delle difficili condizioni di vita delle persone costrette a fuggire da guerre e povertà. Il ritmo incalzante del suo video ‘Myela’, il ritornello musicale e le immagini optical che si alternano a quelle più descrittive fanno di quest’opera una specie di tormentone pop, nonostante il soggetto.

Rasha Deeb, siriana rifugiata in Germania, è l’unica scultrice invitata. Le sue opere micro e macro, di marmo e legno, sono forme astratte, vagamente organiche, che rappresentano metaforicamente l’adattamento dell’individuo alle difficoltà dell’esistenza. La materia si flette, crea delle anse, dei pieni e dei vuoti, per adattarsi alla volontà dell’artista che la modella.

Per maggiori informazioni: artwithrefugees.unhcr.it

Photo Credit: © UNHCR – D. Zoico/A. Penso/ A. McConnell

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