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Fide Dayo, dall’architettura alla regia

Ci sono voluti mesi, ma alla fine “Minister”, lungometraggio del regista nigeriano Fide Dayo, ha ottenuto dal Ministero dei beni culturali (Mibact) il riconoscimento come film italiano e tutti i nulla osta del caso. E’ stato presentato alla terza edizione del RomAfrica Film Festival (Raff) lo scorso 16 luglio alla Casa del Cinema a Villa Borghese. La prima proiezione nazionale si è tenuta il 26 aprile al Cinema Farnese, in Piazza Campo dei Fiori a Roma.

L’intervista ad AVANGUARDIE MIGRANTI

Dayo, quale evento/incontro è stato decisivo nella tua vita per passare dall’architettura alla regia?

Parlare di architettura mi riporta alla mia gioventù, quando circa 30 anni fa arrivai in Italia senza alcun problema. In quel periodo, in pieno boom economico, la Nigeria dava agli studenti più meritevoli borse di studio.  Da ragazzo fortunato lasciai Lagos e ebbi l’opportunità di studiare architettura all’Università di Firenze. Dopo la laurea mi guardai intorno per capire meglio il paese. Per caso una serie televisiva, “Radici”, tratto dal romanzo di Alex Haley, mi ha spinto verso il mondo del cinema. Una storia che si trasformava in immagini e mi riportava ai racconti fatti dai miei genitori e dai miei nonni sullo schiavismo. Ha avuto su di me un impatto molto forte. Da lì ho cominciato a pensare che se questo tipo di film poteva cambiare la narrazione, allora valeva la pena provarci. Alla fine degli anni 90’ ho abbandonato la mia professione per studiare regia. In fondo la forma mentis dell’architetto mi ha aiutato nella costruzione dell’architettura di un film. Le fondamenta di un edificio corrispondono al soggetto da sviluppare e ai singoli fotogrammi che vai a girare.

Il racconto di storie vere, radicate nel quotidiano, nell’Italia odierna. Micro storie che intrecciano la macro storia. Qual è il fil rouge della tua produzione cinematografica?

Credo che ognuno di noi abbia qualcosa da raccontare. C’è chi lo fa scrivendo un libro, chi dipingendo, chi suonando. Io ho scelto la macchina da presa. A me personalmente quello che interessa è raccontare storie sociali, tirar fuori i problemi quotidiani affrontati da chi vive già in Italia. Questo è il fil rouge della mia produzione cinematografica, potrei dire il mio marchio di fabbrica. Sin dal mio primo corto “La ragazza col piccolo libro nero”, realizzato nel 2000 per il diploma della scuola di cinema. Nel mio primo lungometraggio nel 2011, “Ben Kross”, raccontavo di un lavoratore immigrato in Italia che per problemi burocratici rischiava di perdere tutti i contributi previdenziali versati. (“Ben Kross” è stato nominato miglior film di un regista africano residente all’estero all’Africa Movie Award nel 2012, ndr)

Com’è nato il progetto “Minister”? Quale messaggio vuoi lanciare?

“Minister” è un altro soggetto importante della mia vita. E’ nato per sollevare un problema sociale. Il sottotitolo “Just a chance” (“Solo un’opportunità”) fa capire la posta in gioco. La mia intenzione non era quella raccontare per l’ennesima volta lo sbarco a Lampedusa o le condizioni di vita dei ragazzi africani che vivono in Europa. Storie già trite e ritrite. In realtà questi film, secondo me, non dipingono veramente e in modo completo quello che sono gli africani e la loro esistenza all’estero.  Già dal titolo si vuole lanciare un messaggio forte: l’Italia non è un paese maturo per aprire le porte del settore pubblico (istituzioni, banche, ospedali, trasporti, ecc) agli immigrati, ancora oggi per lo più braccianti, lavoratori domestici o parcheggiati nei centri di accoglienza. Un sistema totalmente bloccato. Una situazione che mi tormenta, io che vivo qui da quasi 30 anni. Così ho dato vita al soggetto di “Minister”: la storia (quasi) vera – e non una fiction – di un’immigrata che arriva in Italia in cerca del fratello e che con il suo bagaglio culturale, i suoi valori, riesce non solo a sbarcare il lunario ma anche a emergere e farsi riconoscere per i suoi meriti, le sue competenze, fino a venire nominata Ministro per l’Immigrazione. E’ vero che abbiamo già avuto una ministra di origine africana…. Può sembrare una provocazione, ma in realtà vuol essere una spinta a riflettere, ad aprire nuovi orizzonti per immaginare un futuro diverso fatto di rispetto delle diversità, di integrazione e opportunità reciproche di crescita.

Nigeria, Senegal, Eritrea. C’è tanta Africa nel film. E per una volta non i ruoli scontati, stereotipati…

Abbiamo semplicemente raccontato la realtà contemporanea. Quella di una società costituita da tanti gruppi di origini e culture diverse che di fatto convivono, interagiscono, si confrontano. Una storia quasi vera di protagonisti sia italiani che africani, di due mondi diversi che si integrano. La rete del film funziona e le location sono giuste per raccontare la vicenda in modo vero e professionale. Uno degli obiettivi è proprio quello di contrastare una visione finta e arretrata della nostra società, che è molto più avanti rispetto alla fiction.

“Minister” è un lungometraggio totalmente autoprodotto. Come avete fatto? Quali sono le difficoltà per emergere in Italia da regista indipendente, per giunta africano?

Devo essere sincero, senza la protagonista e coproduttrice Juliet Esey Joseph, questo film non si sarebbe potuto fare. Il nostro è stato un incontro decisivo, nel 2013. Insieme, passo dopo passo, abbiamo costruito l’intero progetto e lo abbiamo fatto diventare realtà! Non è solo una questione di soldi. Anzi, con tanta fatica sacrifici, stringendoci la cinta, i fondi si trovano alla fine. Quello che è fondamentale è riuscire ad incontrare le persone giuste al momento giusto – a cominciare da Juliet – e poi a fare rete. La protagonista e coproduttrice, un’attrice di esperienza, ha creduto nel progetto. Sul set ha fatto tutto, dal trucco ai vestiti. Come lei, anche gli altri attori hanno dato prova di grande professionalità e convinzione. Tranne due, intervenuti a titolo gratuito, tutti gli attori hanno ricevuto un piccolo compenso. Chiaramente non siamo ai livelli di Hollywood ma la qualità c’è tutta. Il film non ci è costato molto e lo abbiamo girato in un mese soltanto. Da ‘buoni’ indipendenti ci siamo arrangiati, siamo stati volenterosi e ci siamo ingegnati, tutti!

Come il cinema e l’arte in generale possono avvicinare popoli e culture, consentendo di andare oltre i pregiudizi?

In Italia il cinema e l’arte in generale hanno un posto importante sia come mercato che crea indotto e genera business che come patrimonio culturale della nazione. Nella costruzione di questo patrimonio noi artisti stranieri stabiliti in Italia abbiamo un nostro contributo da dare. Intanto perché portiamo qui la cultura del paese di origine e poi perché vogliamo conoscere la cultura del paese che ci accoglie. Insomma un dare e ricevere. Da questo incontro, da questa condivisione nasce un terzo prodotto, frutto della contaminazione tra due culture che apre nuovi orizzonti. Ad esempio in “Minister” è importante nella trama l’elemento culturale forte del tessuto adire e di tutta la creatività della protagonista come stilista.

Poi credo sia fondamentale cercare di cambiare un po’ la narrazione raccontando storie belle, altra faccia della realtà, per andare oltre luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi. Se vogliamo invertire la lettura negativa che gli altri possono avere/hanno di noi, dobbiamo essere i primi a cambiare narrazione su noi stessi. Vuol dire uscire da dinamiche negative e deprimenti per portare bei messaggi, per lasciare il segno, un’eredità positiva anche alle nuove e future generazioni.

Dayo, progetti per il futuro?

Posso solo anticipare che il sodalizio con Juliet andrà avanti. Abbiamo già un’idea del prossimo soggetto che sarà alla base del progetto che vogliamo realizzare insieme.

Photo credit: © Fide Dayo

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