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Questa nostra “Terra inquieta”, a Milano

È ispirata a una raccolta di poesie dello scrittore franco-caraibico Édouard Glissant, la rassegna promossa dalla Triennale di Milano e dalla Fondazione Trussardi, intitolata “Terra Inquieta“. Un’inquietudine che attraversa i continenti, che scuote i popoli e i governi e che invade con cadenza quotidiana, le prime pagine dei giornali e i palinsesti dei notiziari.

Oltre sessanta artisti di più di venti paesi sono stati invitati a esprimersi sulle trasformazioni epocali che stanno segnando lo scenario globale e la nostra storia. Affrontando, in particolare, i temi della migrazione, dei profughi, della fuga da guerre e carestie, e dell’impatto che tutto questo ha sul mondo occidentale, ovvero sulle nostre “coscienze”, ma visto e considerato soprattutto con lo sguardo di chi parte, di chi spesso è costretto ad affrontare la drammatica avventura di un viaggio gravido di incognite e di pericoli.

È così che il Mare Nostrum nell’insegna luminosa di Runo Lagomarsino, si trasforma in ‘Monstrum’ inghiottendo le vite e i volti dei fuggitivi ritratti in una quarantina di foto che Xaviera Simmons, trentenne di New York, ha posizionato in una specie di mosaico del dolore.

L’assenza di un futuro di speranza si ritrova anche nel lavoro dell’algerino Adel Abdessemed: un barcone strabordante di sacchi neri di immondizia. Una metafora fin troppo esplicita agli occhi di chi guarda.

Anche il grande collage di Thomas Hirschhorn sembra un mare. Un mare di ricordi, dove alle rovine antiche del Colosseo si sovrappongono le immagini delle macerie odierne della città di Aleppo in Siria. Cosa rimane, sembra chiedersi l’artista svizzero, dell’antica civiltà di valori condivisi, che univa in un comune orizzonte di bellezza il foro romano con le vestigia di Palmira, sulle quali si sono accaniti i distruttori dell’Isis?

Una vecchia Fiat Panda stipata di borse e coperte, libri e persino una bicicletta. Sembra la macchina di chi parte per un lungo viaggio, o di chi, invece deve abbandonare in fretta la propria casa e il proprio paese. L’auto, in effetti, è quella di Manaf Halbouni, nato a Damasco nel 1984. Dalla Siria era già fuggito una decina d’anni fa, trovando rifugio in Germania, lui che è di madre tedesca. Eppure adesso è come se si sentisse costretto a fuggire ancora. Di fronte all’ondata xenofoba che monta in Europa, all’odio per tutto ciò che è “diverso”. Nowhere is Home è dunque il titolo di quest’opera: nessun luogo, ormai, è casa mia.

Photo credit: ©”Terra inquieta”- Triennale di Milano e Fondazione Trussardi

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